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Ricordi

Giovanni Nencioni, foto di Stefano Baroni.

In anni lontani, quando Giacomo Devoto rifondò con compiutezza e metodo moderni l'interrotto Vocabolario della Crusca, invitò la professoressa Maria Luisa Altieri Biagi ad avviare la raccolta del lessico tecnico mancante nelle edizioni precedenti del Vocabolario e a studiarne la costituzione e la tipologia. La vastità della rinnovata impresa e la scarsità dei mezzi costrinsero purtroppo ad accantonare quella nuova ricerca.

Nel congresso internazionale che nel 1983, a Firenze, celebrò il quarto centenario dell'accademia, una storica della critica d'arte eccezionalmente attenta ai testi, Paola Barocchi, lamentò apertamente l'ostinata letterarietà della lessicografia di Crusca, segnalando il grave ritardo con cui essa aveva accolto nel Vocabolario persino il gran testo del fondatore della storiografia delle arti, Giorgio Vasari. Sorse allora tra gli accademici una innovatrice volontà di occuparsi dei linguaggi tecnici. Dopo un periodo di sperimentazione insieme con la Scuola Normale di Pisa, dotata di un laboratorio informatico produttore di memorizzazione di testi attinenti alle arti e ai mestieri ai fini della loro elaborazione in lessici di frequenza e in concordanza. Sono suoi frutti, fra l'altro, gl'indici e le concordanze delle Vite vasariane nelle due redazioni del 1550 e del 1568, e delle Lettere di Michelangelo; e sono stati memorizzati ed elaborati Vitruvio, De architectura in concordanza bilingue della edizione latina di fra' Giocondo (Venezia 1511) e del volgarizzamento di Cesare Cesariano (Como 1521), e Leon Battista Alberti, De re edificatoria nel testo latino e nella traduzione di Cosimo Bartoli (Firenze 1550). Nel corso di quei lavori informatici si è fatto strada il desiderio di accertare come alcune tecniche siano da artigianali (quindi legate a strumenti e termini ambientalmente ristretti) divenute professionali, e come alla nuova dignità si sia adeguata la loro espressione linguistica.

Per l'architettura, la coscienza della professionalità era già viva in Vitruvio, che nella prefazione del trattato prescrive la enciclopedica preparazione culturale necessaria all'architetto. Quella coscienza si trasmette ai trattatisti vitruviani del Rinascimento, soprattutto a Leon Battista Alberti, che nel suo De re edificatoria non solo distingue nettamente l'architetto dal carpentiere, ma assegna al primo i compiti di un'arte costitutiva della vita civile.

È noto che la fortuna di Vitruvio fu grande, nel Cinquecento, soprattutto a Milano e a Roma, centri di alta cultura e di operosità costruttiva o archeologica. Fu appunto in quei centri che s'impose pubblicamente il rapporto tra il testo di Vitruvio e la lingua volgare. Ai tentativi di volgarizzamento parziale o totale fatti nel Quattrocento da singoli artisti (quali Lorenzo Ghiberti e Francesco di Giorgio Martini) successe il volgarizzamento totale eseguito dall'umanista ravennate Fabio Calvo ad uso di Raffaello nominato prefetto delle antichità romane e inteso, per volontà di Leone X, alla ricostruzione cartografica della Roma antica; volgarizzamento che restò, per la morte dell'artista, inutilizzato e non pubblicato. I risultati degli importanti studi su Vitruvio dell'Accademia della Virtù, animata a Roma da Claudio Tolomei, furono consegnati alla riedizione del testo originale e a commenti latini.

La cultura milanese produsse invece il volgarizzamento dell'architetto Cesare Cesariano, accompagnato da un commento vastissimo, lo arricchì di un prezioso corredo di illustrazioni e lo pubblicò (Como 1521) col sostegno ufficiale e mecenatizio di esponenti della cultura e della magistratura lombarde. Ma nonostante l'alto proponimento culturale e linguistico dei patrocinatori, convinti di aver «condotto a chiara luce e desiderato porto» l'opera di Vitruvio per averla «convertita in materna lingua italiana», il testo vitruviano non appare tradotto, bensì ricalcato e come traslitterato, tanto che il Centro di Ricerche Informatiche della Scuola Normale ha potuto tentarne una concordanza bilingue in cui il testo latino e quello volgare sono sovrapposti in parallelo. Uno scandaglio terminologico ha poi mostrato che i termini tecnici latini, quelli che Vitruvio stesso riconosceva mal comprensibili agli stessi romani («Vocabula ex artis propria necessitate concepta inconueto sermone obiciunt sensibus obscuritatem», V pref. 2), sono quasi sempre, in volgare, ricalcati. In un capitolo del suo celebre Geografia e storia della letteratura italiana Carlo Dionisotti ha giustamente affermato che il Cesariano, «volendo scrivere in volgare, non poteva. A tratti, per disperazione, ricorreva al latino, ma nell'insieme la sua fatica di volgarizzatore e commentatore fu vana. Perché la lingua che egli pretendeva scrivere non poteva essere quella che egli, lombardo, parlava, e non era d'altra parte lingua che un inesperto potesse opporre, così vaga ancora e sciolta da ogni regola, alla pressione di un difficile testo latino. Inevitabilmente l'originale s'imprimeva con involontario effetto parodico sulla pasta molle del volgarizzamento e commento» (Torino, Einaudi, 1967, p. 135). Giudizio confermabile alla luce del recente quadro della situazione linguistica milanese dell'età sforzesca tracciato da Silvia Morgana: supremazia incontrastata del latino come lingua di massimo prestigio; presenza dell'elemento tosco-fiorentino favorita dalla politica culturale sforzesca filo-fiorentina nell'ultimo scorcio del Quattrocento; lingua di minimo prestigio letterario l'«alquanto rozo parlare» di Milano (a detta di un colto milanese contemporaneo), cioè l'elemento dialettale variamente decantato, nelle scritture, dei suoi tratti più locali(1). Tuttavia un paziente e attento lettore del magmatico commento del Cesariano troverà che la traduzione del testo vitruviano si trova in esso commento, ricco di sinonimi artigianali milanesi dei termini latini.

L'umanesimo fiorentino, spregiudicato, critico e creativo, non partecipò al culto di Vitruvio; e neppure nel latino architettonico volle essere cultor unius auctoris. Perciò Leon Battista Alberti osò opporre al De architectura di Vitruvio il suo De re edificatoria, che nel titolo stesso, latino anziché grecizzante, prendeva le distanze dal precedente. E lo scrisse nel suo latino (in un latino che cerca piuttosto «giovare a molti che piacere a pochi» e propone audacemente nuovi termini per le nuove esigenze denotative), sebbene fosse padrone e fautore dello scriver volgare e fondasse la sua concezione architettonica sulla filosofia del precedente trattato Della famiglia scritto in volgare. Purtroppo non giunse, come per il De pictura, a volgarizzarlo lui stesso, che aveva dimostrata, per il volgare, la possibilità di farsi voce dell'umanesimo. Ma anche nella cultura della Firenze cinquecentesca ci fu un intervento pubblico, e più specificamente politico, da parte dello stesso fondatore del principato mediceo. Cosimo I, innalzando la privata Accademia degli Umidi ad Accademia Fiorentina organo culturale del principato, le assegnava, con legge del 23 febbraio 1542, il compito di «ridurre da ogni altra lingua nella propria ogni bella scienza», cioè di tradurre testi scientifici. Evidentemente l'incolto Cosimo, ma politico geniale, fiutava l'avvento di una cultura scientifica e, notata l'affermazione nazionale e internazionale del fiorentino nel campo letterario, desiderava estenderla al campo delle scienze, dopo averla estesa al campo delle leggi, da lui emanate quasi tutte in volgare. La sua lungimiranza e la sua autorità produssero in effetti vari volgarizzamenti scientifici, tra i quali quello del De re edificatoria ad opera di Cosimo Bartoli, sostenitore, nella «questione della lingua», delle tesi del fiorentino vivo e corifeo del programma del principe. Alla luce di queste premesse diventa trasparente la mirata pregnanza del frontespizio di cui quel volgarizzamento si fregia: «L'Architettura di L. B. Alberti. Tradotta in lingua fiorentina. Con la aggiunta de Disegni. In Firenze 1550 appresso Lorenzo Torrentino Impressor Ducale». Quel «tradotta in lingua fiorentina» significa il deliberato inserimento della traduzione nella «questione della lingua» e nella dimensione implicitamente data alla lingua dalla legge di Cosimo I: un fiorentino non solo letterario ma anche tecnico, non solo scritto ma anche parlato, come parlata era la lingua propria degli artigiani. Un confronto tra la terminologia latina dell'Alberti, quella fiorentina del Bartoli e quella di un traduttore odierno, Giovanni Orlandi (nella sua edizione del testo latino pubblicata dalle Edizioni «Il Polifilo», Milano 1966), mostra che il fiorentino della traduzione bartoliana si è - anche in forza delle ristampe - in gran parte affermato come lingua nazionale dell'architettura e solo sporadicamente è stato sostituito da un lessico più dotto; per esempio - limitandoci alla terminologia geometrica - da angolo invece di cantone; da angolo retto, acuto, ottuso invece di angolo a squadra, a sottosquadra, a soprasquadra; da curvo invece di torto; da rotondo invece di tondo; da dispari invece di caffo; da diagonale invece di schianciana e simili.

Così nel maturo Cinquecento un'arte altamente professionale, l'architettura, si fa il suo posto - attraverso la «questione della lingua» -dentro la lingua nazionale. Poco prima o negli stessi anni si sono fatte o si fanno il loro posto, nella medesima lingua, la teoria politica col Machiavelli, la storia civile col Machiavelli e il Guicciardini, la storia dell'arte col Vasari; e anche le discipline scientifiche, a cominciare dalla matematica, si preparano ad abbandonare il latino dilatando l'orizzonte della nuova lingua e arricchendolo con l'ausilio di quello stesso latino (per non dire del greco) da cui esse, come da lingua primaria, si stanno separando. Lo stesso divorzio e lo stesso cammino verso una lingua scientifica nazionale comincerà nella Francia che oggi teme il tramonto di quella lingua pienamente conseguita.

Lo teme perché teme la sostituzione delle lingue scientifiche nazionali ad opera dell'inglese, che sulla fulminea comunicazione informatica può correre il mondo senza l'ostacolo e i fraintendimenti della traduzione. Teme insomma che al corso del latino scientifico internazionale succeda, dopo la parentesi delle lingue scientifiche nazionali, il ricorso della lingua tecnologica universale in veste inglese. Corsi e ricorsi? Ma questo è un diverso e controverso tema, che merita di essere trattato in disputa quodlibetale. Grazie!

 

(1) Lingue e varietà dì lìngua nella Milano sforzesca, in Politica, cultura e lingua nell'età sforzesca, Incontro di studio n. 4, Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1995.

Pubblicato su Lingua e Stile, a. XXXII, n. 1, marzo 1997.