Di recente sono stato invitato dal Collegio Ghislieri a raccontare agli alunni la mia vicenda professionale; e poiché quell’antica Pavia, così raccolta negli studi, mi è cara per alcuni amici che l’hanno illustrata con un magistero geniale e per i loro giovani scolari, ho accettato pensando che potesse tornare utile, oltre che curioso, il non breve cammino di uno studioso che non ha mai cessato di verificare la propria disciplina e il proprio rapporto con essa.
Nella storica camera del Ghislieri, dove due dedicate litografie dell’arciduca Massimiliano (il puro, forte e bello Massimiliano) e dell’arciduchessa Carlotta m’invitavano al passato, io confrontavo la facilità di proseguire gli studi che hanno i giovani di oggi con la difficoltà che avevano i giovani di sessant’anni prima, se non appartenenti a dinastie universitarie. Scarsa era l’informazione sui pochi centri universitari dove esistessero collegi o scuole speciali; rare e misere le borse di studio; quasi inesistenti, nelle facoltà umanistiche, i posti di assistente di ruolo, mentre quelli di assistente volontario non davano appiglio a rivendicazioni di precariato. Io, benché uscito da un liceo che mi aveva formato agli studi classici, m’iscrissi nel lontano 1929 alla Facoltà di Giurisprudenza fiorentina, avendo come garanzia di sussistenza lo studio professionale di mio padre; e feci buoni studi, sotto eminenti maestri (quali Cammeo, Calamandrei, La Pira), prevalentemente orientati a una concezione né storica né istituzionale, ma dogmatica del diritto. Complici, dopo la laurea, l’avversione all’attività avvocatesca e la nostalgia delle lettere, tornai agli studi letterari, ma dopo aver risolto il problema della sussistenza sistemandomi in un impiego pubblico; dove, grazie alla mia preparazione giuridica e ad ottimi maestri di amministrazione, imparai ad amministrare la cosa pubblica, cioè i cittadini, acquistando sperimentale coscienza del valore e della necessità del diritto.
Tornai agli studi letterari sotto la guida dell’originalissimo glottologo di Napoli Vittorio Bertoldi, che da creativi avvii di dialettologia romanza si era rivolto a indagare i resti dei sostrati linguistici del Mediterraneo, innestando sul metodo dei sostratisti classici (principe di tutti Kretschmer) l’intuizione areale e stratigrafica e la biologica concretezza di Gilliéron. Mi detti così, pur senza possedere la fantasia del maestro, a ricerche sostratiche e di mutazione nel greco e nel latino anche settoriale (giuridico), e utilizzai, per i prestiti africani e orientali, i miei dilettanteschi approcci coi dialetti berberi e con l’egiziano geroglifico. Il mio concetto delle lingue classiche ebbe così modo di estendersi oltre i confini della comparatistica indeuropea, mentre il concetto della civiltà greca, per illuminazione del nuovo storico Giovanni Pugliese Carratelli, mi si andava dilatando e complicando oltre l’isolamento e l’esclusività culturale in cui me l’aveva presentato il classicismo.
Il mio affetto al greco e al latino non mi aveva allontanato dall’italiano. Continuavo a leggere i grandi autori, da Dante a D’Annunzio, soprattutto a rileggerli; e così imparavo a memoria migliaia di versi, non solo perché allenato a quell’esercizio dai padri scolopi del mio ginnasio, ma perché convinto che per intendere la poesia bisogna diventarne aedi. Allo studio dell’italiano come lingua letteraria mi incoraggiò Alfredo Schiaffini, allievo di Ernesto Giacomo Parodi e suo degno continuatore. Dagli scritti di Parodi e del suo discepolo imparai a vedere la storia dell’italiano in connessione con le altre lingue romanze tanto nella fase antica che in quella moderna e a sentire il fascino storico e sistematico di una dialettologia antica fondata sui testi. Schiaffini in particolare fu determinante nel mostrarmi l’alimento che i volgari nascenti alla scrittura e all’uso letterario trassero dalla retorica medievale e dalla volgarizzazione di testi latini, e nell’addestrarmi a quell’analisi stilistica sia della poesia che della prosa nella quale si affermava insieme con lui Benvenuto Terracini e poi grandeggiava Gianfranco Contini. Critica stilistica fondata certo sulla intuizione e sensibilità personali del fatto d’arte, ma garantita, a differenza della lettura impressionistica, dalla conoscenza storica della lingua e della forma del testo.
La storia della lingua di Schiaffini era episodica e specialmente legata alle elaborazioni colte sia di individui che di correnti; più sin azionale era quella che andava componendo Bruno Migliorini, il quale, di formazione glottologo come gli altri studiosi ricordati, ebbe la ventura di occupare, a Firenze, la prima cattedra di storia della lingua italiana (1938). Egli si propose, e vi riuscì in un ventennio di tenace lavoro, di comporre un trattato di storia della lingua italiana costruita sulle sue attestazioni documentarie, letterarie e no, e sulle sue varie componenti, movendosi dalla fase preunitaria, precisamente dalle prime testimonianze dei volgari, verso la formazione di scriptae o di koinài per giungere alla fase unitaria sulla base del fiorentino. In quella nuova e ardua opera Migliorini coniugava il senso della lingua letteraria a quello della lingua strumentale e valorizzava opportunamente l’influenza dei moti culturali, il contributo creativo degli scrittori e il freno normativo dei grammatici, tenendosi però fermo a un concetto di lingua non quale opera d’arte ma quale espressione di una società colta. Devo dire che quel «giusto mezzo» miglioriniano mi parve il più adatto alla lingua italiana, lingua, almeno per il passato, in parte configurabile piuttosto come un fascio di scelte stilistiche che come un organismo compiutamente strutturato. Non per nulla Tatiana Alisova ebbe a scrivere che, avendo ogni lingua la descrizione che si merita, la lingua italiana non aveva ancora ottenuto una descrizione rigorosamente struttura- listica per il fatto che non aveva ancora raggiunto una strutturazione vera e propria.
Uno degli aspetti più nuovi, e che più mi attrasse, dell’attività di Migliorini fu la sua attenzione all’opera dei grammatici e dei lessicografi; tanto da compilare lui stesso una grammatica e un vocabolario scolastici, rompendo una lunga astensione dei glottologi da imprese così umili, di linguistica - diremo oggi - applicata. L’esempio di Migliorini, e poi gli studi di Marino Raicich sulla partecipazione della scuola al dibattito attorno alla questione della lingua e sul suo contributo all’istruzione linguistica nell’Italia politicamente unificata, mi persuasero a ritenere la precettistica, scolastica ed estrascolastica, ridicoleggiata dallo storicismo e dal liberalismo antipuristico, un importante fattore della nostra storia linguistica. E mi apparve sempre più rilevante l’azione del Vocabolario della Crusca come strumento sia di unificazione linguistica sia di operazione letteraria, in parallelo con l’ipostatizzazione della lingua, assurta qua talis a genere letterario, quando non a idolo estetico. Detti perciò impulso, dentro l’accademia della Crusca, allo studio della lessicografia antica, e nell’università allo studio della grammatica sia storica che teorica, fino a proporre, nella Facoltà di Lettere di Firenze, l’istituzione di un insegnamento autonomo di grammatica; e in un saggio sopra un caso di polimorfia grammaticale nella lingua letteraria dal secolo XIII al XVI dimostrai che nella tradizione italiana la storia di un fatto grammaticale può configurarsi come storia di un fatto stilistico.
Anche nella mia fase più propriamente glottologica io avevo — come ho già detto — continuato a leggere gli autori italiani; e soprattutto, dei prosatori, quelli che hanno più potentemente contribuito a costituire, sviluppare e orientare la lingua italiana e quelli che su di essa hanno riflettuto e ne hanno discusso con maggiore consapevolezza. Ebbi così modo di accorgermi che la storia e la alma della nostra lingua sono già acutamente intuite e saggiate da Carducci e da De Sanctis, e prima da Leopardi, Foscolo, Manzoni, Cesarotti; e che l’Italia non è mai rimasta priva di un proprio pensiero linguistico né avulsa dalle correnti teoriche settecentesche. Mi sembrò superare tutti per originalità e sistematicità speculativa Alessandro Manzoni, degno di essere collocato, in una storia della linguistica, tra gli esponenti europei della linguistica generale; e giudicai un atto rivoluzionario, nei confronti di una tradizione come l’italiana, feconda di lingue d’arte e trattante la stessa lingua nazionale come lingua d’arte, il suo pretendere che l’Italia si desse una lingua che lingua d’arte non fosse. Cominciai perciò a considerare non seriamente motivata la quasi unanime svalutazione che del pensiero e anche delle proposte di Manzoni in materia di lingua han fatta i moderni studiosi, specie pensando all’importanza che Manzoni dette, per l’istruzione linguistica, alla scuola, e all’importanza che alla scuola, per il medesimo fine, è stata e continua ad essere data in ogni paese, anche in Italia, dove lo stesso Ascoli s’interessò all’uso del dialetto come tramite all’insegnamento della lingua. Il processo di nazionalizzazione e di conseguente “standardizzazione” che oggi sospinge l’italiano verso una lingua media, parlata e scritta, largamente comune si svolge nel senso, anche se non nel modo, auspicato da Manzoni: verso una lingua non d’arte, soggetta, in alcune parti più in altre meno, ad una progressiva maturazione che la renderà idonea col tempo — per chi la desidera — anche ad una piena descrizione strutturalistica.
Dello strutturalismo saussuriano, che in Italia è stato applicato (non senza motivo) piuttosto ai dialetti che alla lingua, e che è stato rapidamente sorpassato dal chomskismo, io mi interessai tra i primi, segnalandolo in un lavoro giovanile di linguistica teorica; nel quale però proponevo un concetto di lingua che mi pareva conciliare l’esigenza di sistematicità con quella di socialità: il concetto di lingua come istituzione, presupposto necessario di lingue individuali che non cessassero di essere sociali. A ciò mi ispiravano gli studi giuridici, nei quali il parallelo tra diritto e linguaggio non era nuovo; e difatti la mia proposta ottenne il consenso di alcuni giuristi, ma non quello dei linguisti, e finì col non persuadere neppure me. Fu forse questo precedente a impedirmi di aderire, in un tempo successivo, al concetto di lingua come codice, messo in circolazione dalla ingegneresca teoria dell’informazione e da me usato come comoda metafora ma, con mio stupore, convintamente accolto nel linguaggio della critica stilistica e della semiotica letteraria. A mio sentire la lingua naturale non è né pienamente né esclusivamente un sistema semiotico. Non lo è pienamente, perché a rappresentare e comunicare tutte le operazioni mentali dell’uomo moderno deve essere integrata con codici elaborati artificialmente, cioè con sistemi semiotici specifici e non “vitali” (matematici, chimici, logici ecc.); non lo è esclusivamente, perché la funzione comunicativa è solo un aspetto della lingua naturale, la quale, fondata su un’antropologia primordiale sommessa ma non estinta da una millenaria sedimentazione di culture successive, costituisce la voce di un ethnos, e nella sua vitalità e complessità è un’entità inesauribile. La lingua letteraria italiana in specie, per la sua storia culturale, è meno di altre definibile come un sistema semiotico; attribuire tale carattere alla lingua della Divina Commedia equivarrebbe a trasferirla nella cultura dei mass media, dove quel concetto giustamente furoreggia.
Voglio ora confessare l’imbarazzo in cui mi gettò, insieme con altri compagni di professione, la nouvelle vague della linguistica anglosassone, penetrata in Italia alla fine dell’ultima guerra. Si sa che la cultura dei vincitori ha sempre prestigio; ma nel caso dell’Italia quel prestigio era favorito dal giusto desiderio di una informazione culturale che era stata scoraggiata o ostacolata dal regime politico. I giovani, e tra di essi i migliori dei nostri studenti, chiedevano notizie precise non solo dello strutturalismo europeo, ma di quello americano, fondato sopra le lingue americane e, nel suo principale indirizzo, sopra una visione non mentalistica, meramente formale, dei fatti linguistici motivata con la psicologia comportamentistica; e poi della linguistica quantitativa, della grammatica generativa, della linguistica testuale, della psicolinguistica, della sociolinguistica, della fonetica sperimentale; e infine della logica delle lingue naturali e della pragmatica; di tutto ciò, insomma, che non fosse storicistico e idealistico, cioè tradizionale. Io, ormai formato da un metodo storico, non potevo certo mutare il mio orientamento, ma neppure consentii a respingere come moda o barbarie, o come tentativo di colonizzazione culturale, le teorie straniere. Le consideravo legittime avventure dell’intelletto, utili quanto meno a cimentare l’eccessiva sicurezza delle nostre e a proporre situazioni diverse e prospettive nuove; e ritenevo indispensabile da un lato infarinarmene io stesso, dall’altro aiutare i giovani, se lo desiderassero, a conoscerle bene e applicarle, comunque a non condannarle senza averle conosciute. Negli studi non c’è peggior vizio della fatuità, di cui peccano gli accademici non meno dei giovani; e mi è sempre parso fatuità spacciare come “moda” una teoria solo perché nuova e accolta con favore, senza pensare che la stessa accusa fu o poteva essere rivolta a suo tempo alle teorie fedelmente professate dagli spacciatori. Grazie ai migliori di quei giovani ho compreso l’utilità della grammatica generativa per lo studio e la descrizione della sintassi italiana (l’aspetto più trascurato della nostra lingua) e ho potuto apprezzare i loro ottimi contributi in quel senso; contributi tanto più, per me, apprezzabili quanto più quella nuova grammatica conserva la categorizzazione e la terminologia della grammatica tradizionale e, se non m’inganno, continua, rinnovandola, una speculazione millenaria.
Debbo altresì alla curiosità e alla sagacia di alcuni di quei giovani, pronti a cogliere le nuove istanze della coscienza linguistica nazionale, di essere stato insieme con loro, negli anni Settanta, tra i promotori dello studio teorico e sperimentale della lingua parlata, in particolare della sua sintassi, della sua intonazione, della tecnica dialogica in situazione concreta. Ed è per questa via che ho compreso l’importanza cruciale della pragmatica, la quale, disancorando l’atto linguistico e la linguistica dal testo scritto, ci mette finalmente in grado di percepire la complessità del parlato e, per riflesso, di meglio comprendere la natura dello scritto.
Una difficoltà non piccola incontrata nel mio occuparmi di lingua d’arte, sia poetica che prosastica, è stato il contenermi dentro la mia competenza di linguista senza sconfinare in quella critica letteraria per cui mi mancano la preparazione e gli strumenti. Ho evitato la tentazione e il rischio con l’astenermi da apprezzamenti valutativi, pur sapendo che essi non sono l’unico fattore della critica letteraria e neppure il suo fattore indispensabile. Ma soprattutto ho provato a trattare i testi di autore come palinsesti, cioè prescindendo (a differenza di Devoto che la presupponeva) dalla critica letteraria su di essi accumulata; ho cercato di ricollocarli dentro la storia della nostra lingua e le sue correnti stilistiche, di scrutare il laborioso rapporto tra la lingua e l’autore — specie nel caso di autori coscienti di quel rapporto, come spesso sono stati gl’italiani —, e anche la facoltà di autòctisi che l’opera, una volta concepita, acquista dalla sua forma interna. A ciò il sopraggiungere della semiotica letteraria mi ha dato un aiuto insperato, svincolando, come ha fatto, l’analisi della letterarietà dalla critica letteraria; intendo la semiotica letteraria che non prescinde dalla lingua, giacché quella che si appaga dello schema funzionale del testo, del suo macchinismo strutturale (alla Propp, insomma) può interessare il linguista secondariamente.
Una semiotica filologica, che tenga conto sia della lingua che delle strutture storicizzate, può essere decisiva nel fornire allo storico della lingua la necessaria autonomia; a raggiungere (se mai l’ho raggiunta) la quale mi sono state di esempio e di conforto le “reazioni” di studiosi maturi ma più giovani e quindi più sensibili di me alle cose nuove, reazioni che io ho sempre seguite con l’attenzione spregiudicata con cui ho seguiti i «contatti e conflitti di culture e di lingue» e le innovazioni della tradizione.
L’occuparmi dell’italiano come lingua d’arte non mi ha esonerato dall’intervenire nella questione della lingua risorta con Pasolini e don Milani per apparenti motivi ideologici, in realtà prima di loro e per motivi culturali e sociali, quali la scolarizzazione di tutta la gioventù italiana, la mobilità demografica interna, il migliorato tenore di vita, il costituirsi della cultura dei mass media e la sua diffusione nazionale mediante la radio e la televisione. Ne è scaturito quell’impetuoso trapasso dell’italiano da lingua scritta e letteraria, usata da una minoranza di colti, a lingua scritta e parlata di livello medio e basso, tendenzialmente comune a tutta la nazione, cui abbiamo già accennato; trapasso che sta realizzando un’aspirazione risorgimentale, divenuta programma con l’unificazione politica dell’Italia. È in corso una riplasmazione dell’italiano, allo scopo di farne la voce di tutta la società italiana, e insieme adeguarlo alle lingue fucinatrici di quel linguaggio tecnologico che, con l’accomunarle, le rende in parte internazionali e per quella parte promuove a lingue di comunicazione anche quelle che non lo sono; linguaggio per cui l’italiano dispone di ottime basi, possedendo un gran numero di latinismi e di grecismi che da secoli convivono armoniosamente con la sua struttura romanza senza produrre lacerazioni. Il mio intervento nella questione della lingua, deliberatamente privo di accenti ideologici, si è dato il compito di chiarire e di rasserenare; chiarire che un fenomeno di massa, generalizzante, porta sempre un livellamento e una riduzione, che sono il prezzo da pagare per il vantaggio dell’unità; e invitare a non credere alle cornacchie cro- cidanti lo sfacelo dell’italiano “selvaggio”, perché crisi più o meno gravi per mistione e per espansione l’italiano ne ha subite, e tuttavia è rimasto più fedele alle proprie origini e a se stesso di altre lingue neolatine; ma però far conto e di quel catastrofismo e della opposta esibita spazzatura come di una nuova dimensione della questione della lingua, oggi presente al sentimento, magari confuso, di molti anche modestamente colti e quindi divenuta un pedale della vita linguistica italiana e della cultura dei mass media. L’insegnante di potrà profittare di questo stato di agitazione non per violare la norma necessaria o per rinnegarla, ma per spiegarne la natura e per togliere di mezzo tante false regole grammaticali enunciate da una tradizione razionalistica e restrittiva, ripristinando le flessuose libertà di cui la nostra lingua godeva in antico e che, represse nello scritto, si sono mantenute nel parlato.
Il riflettere sull’italiano odierno e il partecipare alla rifondazione, con criteri e mezzi moderni, del Vocabolario della Crusca, mi hanno indotto a dubitare di concezioni schematiche o generiche e di tecniche tramandate. Ho cominciato a vedere nell’italiano una lingua non compatta, ma costellazionale, formata da un nucleo non intellettuale ma vitale — la lingua materna o prima — attorno a cui si dispongono progressivamente, come in orbite concentriche, le fasce additizie della lingua massmediale, scolastica, professionale, tecnologica e scientifica; fasce delle quali ogni individuo partecipa alterntivamente o promiscuamente, e che, mentre il nucleo mantiene il deposito e il carattere originari della lingua, si aprono ad un rapporto di interferenza e di conguaglio con altre lingue a servizio di una cultura sempre più internazionale. Per le più periferiche di tali fasce, a cui il problema del forestierismo si pone in termini non più puristici ma neo-logistici, mi pare idonea una lessicografia ma non prontuaristica, che tolga il tecnicismo dall’isolamento in cui si trova nel dizionario generale, lo ricollochi nel suo ambito linguistico e lo fornisca di una contestualizzazione diacronica e sincronica pertinente; lessicografia tecnica a cui ho dato avvio nell’officina dell’accademia della Crusca, con l’ispirazione metodologica e la collaborazione della storica dell’arte Paola Barocchi, particolarmente interessata ai problemi del lessico specifico. Nei moderni questa lessicografia potrà, con la sua stessa documentazione, dare evidenza e orientamenti sulla neologia tecnica e scientifica, mostrando gli elementi compositivi (prefissi e prefissoidi, suffissi e suffissoidi, composizioni e associazioni) di cui essa dispone per ottenere neoformazioni coerenti e trasparenti; in modo da evitare, almeno nei linguaggi tecnologici e scientifici, la babele che regna nelle neoformazioni commerciali. Un sistema di dizionari satelliti ha proposto anche Harald Weinrich alla lessicografia tedesca. Quanto al vocabolario generale, vorrei che vi fossero segnalate le regole e le categorie grammaticali in crisi o in via di affermazione, con particolare riguardo alle associazioni vincolate o ricorrenti, alle reggenze, alle composizioni, ai sintassemi, a tutti quei fatti, in senso lato, di sintassi linguistica o retorica di solito trascurati dai nostri dizionari, che per tradizione sono soprattutto lessicali.
Finalmente sento di dover motivare perché rispetto ad alcune tendenze della linguistica più recente e più seguita io sono rimasto perplesso o addirittura chiuso. Una è l’interdisciplinarità, intesa come una visione multipla che garantisca la conoscenza totale del l’oggetto. Io non credo che esista una conoscenza totale, ma solo relativa al sapere particolare che ognuno coltiva e al modo di conoscere che è valido, o piuttosto utile, per esso. Diffido anche, ed esorto a diffidare, delle linguistiche che prescindono dal significato, per quanto ingombrante e problematico esso sia; vedo infatti la speditezza di una linguistica meramente formale, ad es. di una grammatica distribuzionale, ma vi sento una monocularità, una mutilazione della lingua, congenitamente portatrice di forme e di contenuti. Ho poi resistito all’invito alla formalizzazione o matematizzazione delle “scienze umane”, del discorso umanistico; invito che ha raggiunto la sua acme nel dopoguerra al fine di eliminare il divario tra le “due culture” e di procurare al conoscere umanistico strumenti oggettivi e sicuri come quelli di cui si servono le scienze esatte. A me sembra che il conoscere χat¦ fÝsin, proprio delle scienze naturali, non convenga al mondo dell’uomo, che è frutto della memoria e come tale oggetto del conoscere storico. Le frequenze, le statistiche, le sincronizzazioni strutturali, le misurazioni acustiche e spettrografiche sono indubbiamente utili, ma non sufficienti a spiegare quella ecceità della facoltà di linguaggio che è una lingua concreta; come la neurologia cerebrale non basta a spiegare i contenuti e gli orientamenti del pensiero umano. A chi, avviandosi agli studi, mi chiedesse che, al termine di una lunga esperienza passata attraverso le sollecitazioni e le tentazioni di una disciplina inquieta come la linguistica, io dessi un viatico, non avrei di meglio da raccomandare: Se volete dare un senso ai “fenomeni”, non li estraete dal tempo; e se, per esigenze strumentali o per ipotesi di lavoro, vi è opportuno farlo, curate sempre di ricollocarli nel tempo. Non perdete, insomma, il sentimento della storia.
Giunto a tale conclusione, e rileggendo quanto or ora ho scritto currenti calamo, mi stupisco della semplicità, per non dire banalità, del mio riepilogo. Come è possibile - mi chiedo - che dalla complessificazione propria del sapere odierno, che anch’io ho in qualche misura sperimentata e introdotta nei miei saggi, mi siano uscite in extremis deduzioni così elementari? Tento di spiegarlo, se non di giustificarlo, con le finissime osservazioni di Cesare Segre sulla rammemorazione. Che cosa ricorda di un romanzo chi ha finito di leggerlo? Resta nella sua memoria ciò che esce da un processo di scelta e di riordinamento, secondo il senso comune, del folto artefatto racconto. La stessa rastremazione memoriale mi pare che avvenga di una lunga esperienza, salvo che essa non si esplichi dentro una vocazione manieristica; e avviene tanto nel contenuto; che nella espressione. Dalla complessità esce alla fine un sugo (per dirla manzonianamente) di semplicità interiore ed esterna, come e la complicazione avesse servito a spremere cose semplici e, dispogliandosi, a fare il debito posto a ciò che, senza escludere le superfluità nostre e i veri altrui, è risultato essenziale e utile. Non c’è dunque, tra questo riepilogo e i saggi che ho scritti, possibilità di coincidenza? Sta tuttavia al mio eventuale lettore giudicare criticamente che cosa, nel passaggio dall’uno all’altro, sia sminuito o caduto, che cosa rimasto. Su me, nell’affidarmi alla naturalezza del processo di memoria, pesa il rischio, anch’esso naturale, di ricordare di me stesso solo il buono, il migliore.